Il rumore del grosso ramo che si spezza è amplificato dal silenzio e dal freddo mattutino. Ronnie con un guizzo afferra per la collottola Giosuè, lo tira a sé e lo ripara con il proprio corpo. Il pezzo d’albero si abbatte a terra con fragore e una determinazione soprannaturale, sommergendo le due figure, come a voler uniformare di legno e neve ogni cosa. La mamma di Giosuè si sveglia di soprassalto con una sensazione di disagio nella pancia, si alza piano e va nella camera del figlio, quando la scopre vuota il terrore s’impadronisce della sua ragione e con un grido sveglia il marito.
Milano, 2005
Era strano e bello girare per la città con un nome diverso da quello che il Fato mi affidò alla nascita. Adesso per tutti ero Ronnie Consiglio.
Fu il periodo più “normale” della mia vita, giravo più o meno gli stessi posti, vedendo le stesse persone. Mi allontanavo da Milano solo per le “ferie” invernali, abbassandomi un po’ di latitudine, per il freddo e la nebbia.
In questo periodo non mi mancò mai di che vivere una vita felice; apprezzato per quello che ero, non bramavo ciò che non possedevo.
Un giorno, un tizio appena tornato dall’India, disse che ero come uno dei tanti saggi itineranti, che là vivono di elemosine, sole e benedizioni. Si sparse la voce che avevo trasceso la materialità, il pane, il vino, le comodità, i vestiti, l’apparire, il denaro.
Senza volerlo, ero diventato un mistico.
Invece a me la fisicità piaceva, perché è una delle cose più spirituali che c’è, è la concretizzazione dell’imponderabile. È spiritualità fatta carne e sangue.
La voce si sparse, alimentata dal vento della fantasia. Qualcuno arrivò da me con lo zaino pieno di aspettative, magari per una guarigione o solo per toccare i piedi del santone. Quando me ne rendevo conto, andavo via scusandomi. Non volevo essere frainteso o approfittare delle disgrazie umane. Le malattie del corpo non le potevo sciogliere, perché nessuno può sostituirsi al guaritore che tutti abbiamo dentro.
È questione d’orecchio, c’è chi lo sente questo medico interiore e fa la cosa giusta per ritrovare la salute, chi no. È così semplice da essere troppo complicato spiegarlo, ed io mai lo spiegai.
Poi un giorno, divenni veramente celebre…
Ormai non potevo mancare alla giornata di aiuto ai senzatetto, indetta a Milano un paio di volte l’anno.
Era ritrovo di vecchi e nuovi amici e quella volta l’aria era alleggerita dalla splendida voce di Gino, tenore caduto in disgrazia. Cantò la Turandot talmente bene da meritare gli applausi di Puccini in persona.
Prima di mezzanotte smettemmo con il baccano e si formarono i soliti gruppetti, un po’ dentro un po’ fuori dalle tende, era una piacevole notte di fine estate e mi appoggiai da solo, a un palo, sotto le stelle.
Avevo passato una buona giornata ed ero soddisfatto. Mi appisolai un paio d’ore avvolto in una coperta.
La parte di me che resta sempre all’erta, mi svegliò in tempo per vedere quel ragazzo a non più di cinque metri da me. Avrà avuto trent’anni, ma ne dimostrava di più grazie a un’ispida barba rossiccia e all’abbigliamento trasandato. Non era di noi e neanche un tossicodipendente, in quel momento non riuscii a capire chi fosse e cosa facesse lì a quell’ora.
Si avvicinò con la scusa di accendere e fare due chiacchiere. Si sedette e parlammo di quella giornata, delle associazioni che promuovevano gli eventi, delle persone che vi partecipavano. Mi chiese se ero stato bene e se era davvero un aiuto per chi aveva fatto della strada la sua casa.
Risposi che sì, poteva essere un momento di sostegno e condivisione, ma rimasi sul vago. Troppe domande.
Forse si accorse della fessura di diffidenza che si stava aprendo in me, e iniziò a cucirla parlando di se stesso. Stava attraversando un momento difficile, era fuori di casa da qualche tempo, cercava un lavoro che gli consentisse almeno di mangiare e avere un tetto sulla testa.
Era bravo, aveva una bella parlantina, sapeva mentire bene, quasi un professionista, ma non gli credetti neanche un attimo, anche se aveva un musetto simpatico, con un nasino all’insù pieno di lentiggini, occhietti vispi, orecchie grosse e a sventola che spuntavano dai capelli riccioluti. Fumava molto ed era sobrio, e ci parlai volentieri. Aveva un’ottima proprietà di linguaggio e la mente veloce almeno quanto gli occhi.
A un certo punto chiese della mia vita, del perché fossi in quella situazione, se ero stato costretto o se l’avevo scelta. Non avevo certo qualcosa da nascondere, così narrai di cose quasi dimenticate, vicende morte che non muovevano più alcun sentimento in me, come facessero parte di un’altra vita o di quella di qualcun altro.
«Ma Ronnie Consiglio è il tuo vero nome?» domandò.
Rimasi incerto un attimo se dirglielo.
«No, è una specie di nome d’arte, sulla carta d’identità c’è scritto Terenzio Rognini» alla fine risposi.
Dalla sua espressione capii che aveva intuito con chi fossi imparentato. L’irreprensibile sindaco di Milano portava il mio cognome.
Zio Ermete ne aveva fatta di strada senza camminare sull’asfalto, e adesso ricopriva un’importante carica, grazie soprattutto alla sua probità.
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