Ha smesso di nevicare. Giosuè guarda fuori dalla finestra verso il Grande Albero e pensa all’uomo del sogno. Chi è? Sarà là sotto la pianta? Sentirà freddo e fame? Domande. Nella casa silenzio. Nel cuore di Giosuè una decisione. Alle cinque e venti, senza farsi sentire, il bambino esce dalla porta posteriore, indossa un piumino ben imbottito e caldi doposci, sottobraccio stringe una coperta e in mano ha un sacchetto con dentro due mele, una bottiglietta d’acqua e tre delle sue brioche preferite.
Torino, 1995
Fra i posti in cui sono stato, ce n’è qualcuno cui sono profondamente affezionato, come la spiaggia dove conobbi Chiodo. Altri luoghi sono spaiati, sono senza causa. Torino è uno di questi. Mi ci rifugiai almeno due volte l’anno.
Torino è una città bella e inquietante, ha grandi viali e antichi palazzi, il Po la addolcisce, la nebbia e i misteri la nascondono, i monti vicini le coprono le spalle e il lavoro in fabbrica anima i suoi abitanti.
Era novembre, quell’anno il freddo stentava a scendere dalle Alpi, la bruma saliva dalle scure acque del Po, avvolgendo case, strade e il ponte in riva al fiume dove stavamo noi viaggiatori di mondo.
Ci ritrovammo in tre a mangiare qualcosa e bere un paio di bottiglie di vino, a mezzanotte ci infagottammo ognuno nel nostro cantuccio. La nebbia dipingeva ogni cosa di grigio, in giro un deserto di anime. Vedevo a stento il grande fiume, ma sentivo la sua presenza. L’acqua per me è sempre stata una calamita, che si riunisca in fiumi, rigagnoli o immensi oceani: è un mistero che tranquillizza, porta vita alle zolle e ai cuori aridi, canta quando balla, se limpida lava brutture e se è sporca, spegne ugualmente gli incendi.
Mi addormentai, con questi pensieri, di un sonno pesante e incosciente. Sognai un uomo con una mantella scura e un cappello che sapevo su una testa pelata, gli occhi brillavano, incastonati nel volto anziano. Disse qualcosa e mi diede una carezza sulla testa come nonna Fina, sorrise e appoggiò un fiore rosso sul mio cuore.
Mi svegliai di soprassalto, non so che ore fossero, noi itineranti non obbediamo alle ferree leggi dell’orologio, ma c’era ancora buio e foschia pesante. Mi tirai seduto, tra i fumi vidi una figura nera che si allontanava, fu visione di un attimo, poi scomparve. I compagni ronfavano una sinfonia di rumori. Il fiore non lo trovai. Avevo sognato. Ricercai il sonno perduto senza trovarlo. Era successo qualcosa, ma non capivo cosa.
Ero già lontano dal ponte quando la luce del giorno arrivò.
La meta era un oste che non riusciva mai a dire no se domandavo qualcosa da mangiare. Feci colazione fuori, sotto il portico dietro all’osteria, con minestrone bollente e una fetta di crostata. Erano squisiti.
Se avevo qualche soldo, lo lasciavo sul tavolo, altrimenti ringraziavo e prendevo il largo. Lui se ne stava sempre in cucina fra pentoloni e cibo tagliuzzato. Non mi chiese mai nulla, era una rara pasta d’uomo.
Quel giorno avevo cinquemila lire, racimolate a chiedere l’elemosina. Mi alzai indeciso, ma poi lasciai una cascata di monete sul tavolo, tenni solo cinquecento lire, per avere qualcosa che pesasse in tasca.
Il giorno procedeva, facendo scivolare con grazia il sole sulla panchina del giardinetto. Il tempo era bello, un cielo terso mi riempiva gli occhi.
Spezzai il pranzo con movimento secco, il pane evaporò profumo di frumento e acqua e fuoco. Masticai lentamente l’unico panino che avevo, lo stomaco si riempì quel tanto da non avere fame. L’ultimo boccone lo diedi all’erba, per ringraziare. In un mondo ingordo di tutto, la vita è garantita dal poco pensai.
Sfilai Panorama trovato il giorno prima. Era giorno di lettura.
Provai a leggere, ma le parole non s’incollavano in testa. Mi perdevo in pensieri. Allora capii che era giorno di contemplazione. Rimasi immobile con la rivista in grembo, a guardare.
Il tozzo di pane a terra richiamò un pettirosso. Mi venne vicino con diffidenza, sbocconcellando con un paio di colpi una grossa briciola. Poi diede ancora due beccate e uno sguardo di circospezione, infine s’involò.
Il resto del pane se lo divisero un piccione e una femmina di merlo grigia come cenere, a turno, senza bisticciare.
Quando pensai che non ci fosse più nulla, arrivarono le formiche che stavano organizzandosi per l’inverno.
Ognuno prese la sua parte, ossia ciò che gli occorreva. La natura prende quello di cui ha bisogno, l’uomo no, arraffa tutto, ingloba di più perché crede sia solo suo. Pensai che la cupidigia è prerogativa solo umana e mi domandai se l’uomo fa veramente parte della natura, o se è un pitocco parassita autoincoronatosi re.
Sguazzai nei miei pensieri fra sigarette e profumo di sole. Oggi non leggo mi dissi. Oggi è giorno speciale.
Mi alzai per gravitare altrove.
Dalla fodera lacerata del mio pastrano saltò in terra una grossa busta, bianca e gonfia. Rimasi stupito, non l’avevo mai vista. La raccolsi, era importante, corposa. Ci buttai dentro uno sguardo. Gli occhi restarono lì incollati mentre il cuore era un tamburo nel petto.
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