Giosuè vive la sua prima grande avventura mangiando una brioche con un uomo che potrebbe essere suo nonno. Parlano da mezz’ora sotto il Grande Albero. La voce di Ronnie è calma e profonda. Al ragazzino sembra musica, un’armonia che muove onde concentriche. È un sasso gettato in un laghetto ancora limpido. Giosuè intuisce un mondo diverso dietro quell’aspetto fisico, senza sapere che quell’incontro lo aspettava come un traguardo.
Milano 1999
Era un gruppo disomogeneo di ragazzi. Si avvicinò in un pomeriggio piovoso di marzo. Scherzavano, spintonandosi, risate nell’aria. Emanavano allegria e giovinezza.
Stavo con Pietro, qualche anno più di me e una disgrazia dietro l’altra, dalla perdita del lavoro a quella della moglie, che gli spirò fra le braccia una sera appena prima di cena. Emorragia cerebrale dissero, non si poteva prevedere, aveva un timer nel cervello! Quando non riuscì più a pagare il mutuo della casa, si trovò prima a vivere in auto, poi per strada. Da sei anni.
Era un buon diavolo, non proprio divertente ma una compagnia con cui condividere qualche ora di vita. Stavamo in una piccola galleria che faceva da ingresso a un paio di condomini, dalle parti di Porta Romana, si parlava di gente e posti, e sogni. Dividevamo ciò che avevamo racimolato, un po’ di pane, un cartoccio di prosciutto cotto, una bottiglia di vino e l’esperienza dei nostri passi.
Nella galleria entrarono due ragazze, in mano dei volantini e la faccia pulita di chi ha avuto pochi inciampi nella vita. Gli altri aspettarono fuori facendo una caciara che metteva il buonumore.
Salutarono dandoci del lei, come fossimo degni di rispetto, come ci si rivolge a qualcuno che ancora non conosci e non a due barboni. Sorrisi al pensiero che la gentilezza albergasse ancora in qualche giovane cuore. Ci allungarono un foglio a testa. Erano volontarie e quella sera avrebbero dispensato pasti caldi. Ci sarebbe stata una branda in una grossa tenda riscaldata, per chi avesse voluto avere un tetto di plastica sulla testa.
Dissero che saremmo stati i benvenuti, salutarono e ringraziarono.
Ripensai a quel ringraziamento anche più avanti, senza comprenderlo mai completamente, ma mi fece bene sentirlo. E per questo ci andai quella sera, nella bellissima piazza Duomo di Milano.
Avevo già sentito e letto di quegli eventi. Delle persone di buona volontà si ricordavano, con una specie di festa, di noi viandanti. E restavano lì tutta la notte a dormire e giocare a carte con noi, o meglio con chi di noi restava.
Alle sette c’era già buio e aveva smesso da poco di piovere. Pietro era tornato a casa, in Stazione Centrale, nel suo “ritaglio”, come lo chiamava lui, ed io arrivai in piazza. Due grosse tende militari stavano da una parte, in una iniziavano a servire piatti caldi. Non c’era molta gente, una delle due ragazze del pomeriggio armeggiava con un mestolo.
Di colleghi ne vedevo pochi, sembrava più una festa per giovani volontari. Mi avvicinai.
Seduto sul marciapiede, c’era un uomo con una lunga barba bianca da farmi invidia. Fumava un sigaro, le gambe allungate davanti, con una caviglia sopra l’altra e l’espressione di chi si gode il momento. Non era dei nostri, non l’avevo mai visto, ma in qualche modo era famigliare, risuonava.
Passai vicino, si accorse dei miei sguardi e forse dei miei pensieri. Sorrise senza dire nulla, fece pat pat con il palmo della mano sul cemento in fianco a lui. Con l’altra mano estrasse un sigaro dalla tasca interna.
Walter aveva lo spirito di un ragazzino che deve ancora capire molte cose, tre lauree e una cattedra di filosofia all’Università, ma questo venni a saperlo solo dopo, parlando con quei ragazzi che lo idolatravano. Aveva una moglie e due figli, un sacco di studenti che cercava di rendere migliori e un grosso impegno nel sociale. Era lui che organizzava quelli e altri eventi di sostegno.
Parlai di me, quella notte, e lui mi ascoltò volentieri. Sembrava stesse imparando qualcosa sfuggitogli dai libri.
Prima di addormentarsi, coricato nella branda vicino alla mia, in mezzo a noi viaggiatori di mondo e ai suoi ragazzi, mi disse che avrei potuto scrivere un libro con tutta quell’esperienza diversa dall’ordinario. Ero un manuale pieno di consigli saggi, perché provenienti dalla vita.
Poi mi girò le spalle e augurò buonanotte con quel nome che porto tuttora: Ronnie Consiglio.
Due minuti dopo russava.
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