Giosuè è in un prato con l’erba alta e i fiori viola e gialli, respira profondamente il sole che dona la vita. Poi decide di volare. Si dà un colpetto e spicca il volo, come fosse la cosa più normale del mondo. È felice mentre sale sempre più, in mezzo alle nubi. Giù in basso i suoi genitori lo salutano con la mano, abbracciati e contenti. E lui va oltre. Sorvola montagne, torrenti, foreste, oceani, laghi e città. Non ha una meta, è un viaggiatore. Poi vede il Grande Albero e ne è attratto. Atterra sulle sue radici. Ai piedi del tronco c’è un uomo sorridente, con la barba, la faccia simpatica e un cappotto troppo pesante per il sole che brilla nel cielo. Un’immagine gli si forma nella mente: il margine di una strada coperta di neve ricamata come un merletto. E capisce che l’ha già visto e lo conosce già. L’uomo gli porge la mano con il palmo verso l’alto, Giosuè la tocca e una musica si propaga nell’aria. Cerca di capire da dove viene. Scopre un’altra persona seduta sotto un ramo, è alto e magro, suona un attrezzo strano, emana onde di colore. Non lo vede in modo nitido, un velo opaco nasconde i particolari. Quando si sveglia, Giosuè ricorda perfettamente il sogno, ha nelle orecchie una musica mai udita e sulla mano l’odore dell’uomo con il paltò.
Toscana, 1993
Chiodo faceva piano bar dalle ventidue e trenta alle due del mattino. Precise. Poi smetteva e si riposava mezz’ora.
Suonava motivetti conosciuti, soprattutto musica leggera. Usava un pianoforte, su un palchetto in fondo alla sala. Raramente cantava con la sua voce profonda e intima come una tana. Leggeva sempre gli spartiti e soddisfaceva sempre le richieste dei clienti. Fra una canzone e l’altra si fermava un minuto, a volte di più. Beveva parecchio e mangiava qualcosa ogni tanto.
Alle due e mezzo ricominciava a suonare. Con la chitarra. Ed era tutta un’altra cosa.
Non leggeva partiture, si fermava pochissimo e teneva gli occhi chiusi per lunghi periodi. Non ingurgitava nulla, neanche una goccia d’acqua. Non cantava, ma a volte usava la cassa dello strumento come percussione. Sembrava ci fossero tre persone: due con la chitarra e una con un tamburello.
Molti arrivavano proprio a quell’ora, per lui, per sentirlo suonare. Gente discreta e silenziosa, quasi raccolta in se stessa. Era una popolazione molto diversa da quella che frequentava il locale in prima serata.
Nessuno applaudiva nell’ora e mezzo che suonava Chiodo. Solamente alla fine battevano le mani, ma sempre poco, con moderazione. Qualcuno andava a complimentarsi con lui intanto che metteva via la chitarra, gli stringeva la mano chiamandolo Maestro e poi fuggiva come se l’avesse disturbato.
Alle quattro smetteva. Precise.
E il locale chiudeva. Alle cinque arrivava una coppia di giovani boliviani per pulire il bar. Spesso Chiodo tornava e suonava ancora un po’. Sempre la chitarra.
Quando gli chiesi perché tornasse a suonare dopo tutte quelle ore, mi rispose che era l’unico modo che conoscesse per ringraziare quelle persone che pulivano la sporcizia lasciata dagli altri, compresa la sua. Ognuno ha il suo modo di pulire, loro usano la ramazza, io la musica, mi disse.
Mi sistemai in una casa cantoniera mezza diroccata sulla statale, a cinquecento metri dal bar. La proprietaria era tornata, acida e sbiondata come un limone, vigilava su tutto e tutti e restava nel suo locale fino a chiusura. Le volte che tornai ad ascoltare il mio amico, lei cercò di allontanarmi, anche se ero vestito decorosamente e consumavo qualcosa, sapeva dove vivevo, quale fosse il mio stile di vita e non le andavo a genio.
Una sera mi portò da bere lei e non la solita cameriera. Buttò il bicchiere sul tavolo rovesciando la schiuma della birra e disse quando hai finito questa, te ne vai, vero cantoniere?
Abbassai lo sguardo annuendo. Lei sorrise soddisfatta ma la musica si zittì. Chiodo interruppe un cha cha cha, abbandonò il pianoforte, scese dal palco e venne da noi.
«Rita, lui è un fratello! Viene per sentirmi suonare e non certo per la bontà della tua birra, come molti qua dentro del resto… e questa sera è mio ospite, le sue consumazioni le pago io» bisbigliò Chiodo alla proprietaria per non farsi sentire dai clienti.
Rita sostenne lo sguardo del musicista, poi come se si fosse ricordata che doveva fare dell’altro si girò, disse vabbé vabbé, ma torna a suonare, e si avviò al bancone.
«Bevo questa, poi vado» gli dissi «non voglio crearti problemi.»
«Se davvero non lo vuoi, aspetta e mangia il risotto di mezzanotte, e resta fino a quando vuoi» appoggiò una mano nervosa sulla mia spalla, ordinò il mio piatto alla cameriera e tornò sul palco.
Riprese a pigiare i tasti, delicatamente. La sala fu inondata da una melodia lieve come uno sbuffo d’aria e malinconica come un addio.
Quella mattina, quando il locale chiuse, Chiodo mi parlò della sua vita. Fu l’unica volta.
A quattro anni iniziò a sedersi davanti al pianoforte, guidato da una zia concertista che viveva con la sua famiglia e imparò a leggere lo spartito prima di capire come scrivere una parola in italiano. Era il terzo figlio maschio di una famiglia che possedeva un’azienda vinicola, grande come mezza provincia, da diverse generazioni: producevano vini pregiati e li esportavano in mezzo mondo.
A lui non interessava quale fosse il terreno più idoneo per produrre quell’uva che fu una benedizione e la fortuna finanziaria della sua stirpe. Chiodo viveva per la musica. Quando, ancora adolescente, si diplomò al Conservatorio, i suoi fratelli lavoravano già nell’azienda, imparando quello che suo padre apprese dal nonno che assorbì dal bisnonno e così via.
Al compimento della maggiore età, il padre lo chiamò per dargli una fetta di patrimonio da usare come più riteneva opportuno. Era un’usanza di famiglia. I suoi fratelli avevano investito i loro beni nell’ampliamento della ditta. Il padre sapeva perfettamente che stavolta il suo denaro avrebbe preso un’altra direzione.
Chiodo fece la bella vita per quattro anni, fra party, modelle, cocaina, macchine sportive, alcol, eccessi, noia, gite in barca a vela per il mondo e università che frequentava a singhiozzo. Poi restò senza soldi. Quelli che erano stati i suoi amici in quegli anni spensierati sparirono come visioni.
Quando Chiodo chiese un aiuto economico, il padre gli offrì un lavoro come manovale, dicendogli, tagliente come un rasoio, che in azienda c’era bisogno di qualcuno che caricasse i camion e non di un menestrello.
Agguantò qualche vestito, la chitarra, una manciata di soldi dalle mani sudate di sua madre piangente e andò a vivere da quella che allora era la sua fidanzata. Durò poco. Le donne? Non riesco a… farle vibrare come le corde della chitarra, diceva, sono troppo complicate, hanno dei tasti o troppo piccoli o enormi.
Chiodo guadagnava qualcosa suonando nei locali con due amici, non era finanziariamente all’altezza della sua ragazza, che studiava alla Bocconi e viveva in un attico di proprietà, nel centro di Milano. All’inizio della relazione percorrevano due sentieri attigui e paralleli, ma poi la forbice si aprì e, col tempo, si scoprirono in posti diversi, diametralmente opposti.
Lei si laureò e andò a lavorare a Londra, in una multinazionale. Chiodo si trovò a vivere in due stanze a Firenze con altri tre ragazzi, musicisti, ricchi d’idee e di decadenza, di note, testi di canzoni ed entusiasmo, ma carenti in tutto il resto.
Passò qualche anno fra una sala d’incisione e l’altra in giro per il paese, tra promesse e speranze, poi, a ventotto anni, Chiodo abbandonò l’idea di sfondare e tagliò dalla sua vita le case discografiche e tutto quel mondo.
Iniziò a esibirsi da solo in alcuni locali caratteristici, sopravvivendo alla vita. Studiava, suonava e scriveva musica tutti i giorni, non per il successo o la fama, ma per se stesso, per non morire, diceva.
Tutto è suono e si può tradurre in musica. Io e… te siamo musica, il mare… e la vita è musica! concluse quella mattina mentre albeggiava.
Poi arrivò quel giorno.
Entrambi sapevamo che sarebbe giunto.
Al mattino, con la vista appannata dai lucciconi, sotterrai e salutai Canino, che da qualche giorno non mangiava più e faceva fatica a stare in piedi. Nel pomeriggio mi presentai al garage-magazzino per salutare il mio amico Chiodo, erano passati più di due mesi dalla sera in cui probabilmente mi salvò la vita.
Lo sorpresi mentre disegnava i suoi insetti su quelle cinque righe tese come fili. Capì subito.
«Sono venuto a… è ora che io…» iniziai a farfugliare.
Si alzò, mi abbracciò dicendomi okay, va tutto bene! L’acqua deve seguire il suo corso, come la musica e la vita di un uomo.
Stavo per uscire quando mi propose «il prossimo solstizio estivo, ci vediamo alla stessa spiaggia!»
Mi bloccai sull’uscio e glielo promisi mettendomi una mano sul cuore.
Ci vedemmo il ventun giugno, per tre anni a fila.
Il quarto anno non si presentò all’appuntamento.
La stessa notte, dal boschetto che guardava il mare, sentii una melodia che solo Chiodo poteva aver ideato. Poi tornò il silenzio. Lo cercai nell’oscurità, ma non trovai nessuno. Fino a mattina mi rimase nelle orecchie quella musica e nel naso un profumo di rosa.
Così seppi che anche il suo corpo si era dissolto, ma la sua musica no, l’armonia che aveva creato era viva e presente per chi sapeva udire.
Quella notte mescolai vino e lacrime, e il vino era in quantità minore.
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