Con lo sguardo Ronnie segue il possente braccio dell’immenso ippocastano. Ramo dopo ramo si assottiglia sempre più, fino al rametto in fondo, l’ultimo. O il primo se si modifica il punto di vista. Una foglia scura e raggrinzita è ancora appiccicata. La indica con un dito, ripensando all’analogia che più risuona con la sua visione della vita. «Come foglie dello stesso ramo!» sussurra «sull’albero che tutti ci comprende, e che tutti noi formiamo.» «Sei rimasta sola! Abbandonati bella, che l’inverno la fa da padrone e ti devi preparare a una nuova primavera» sorride annuendo col capo. «Una nuova primavera…» E la foglia si lascia cadere, offrendo all’aria tutta la superficie che può, per durare un poco di più. D’altronde non può fare altro, per natura è abituata a resistere. Poi arriva. È una macchia sul manto candido. «Ora, da dove sei, vedi tutto diversamente. Com’è papà albero? E io, come sono?» chiede alla foglia. «La prospettiva cambia il senso di ciò che pensiamo di vedere, ma è sempre la stessa cosa, la stessa cosa…»
Toscana, 1993
Il mio amico Chiodo si chiamava Dario, ma io l’ho sempre chiamato Chiodo, a volte Secco o anche Lungo. A lui piaceva perché era una cosa intima, fra noi due, ma io penso che fosse perché il suo nome di battesimo lo riallacciava al passato, alla famiglia, alle ferite infette che tendevano dolorosamente la pelle, e sentire il suo nome era come inciderle e bagnarle con l’acqua salata: il pus usciva ed era un bene ma anche sofferenza, bene e male insieme, uno dentro all’altro. Come se uno generasse l’altro e un piccolo seme dell’altro generasse il suo opposto. Un moto perpetuo, senza soluzione di continuità.
Poi la ferita si richiudeva, senza mai guarire completamente, fino alla volta successiva.
La notte che cercarono di abbrustolirmi l’ho passata abbracciato a Canino, nel garage-magazzino di un bar. Camminammo mezz’ora per arrivarci. Era l’alloggio momentaneo di Chiodo, che lavorava nel locale in cambio di vitto e alloggio.
Dal bar arrivavano divertimento e allegria, musica, un brusio di voci, qualche risata e il tintinnio dei bicchieri.
I miei averi erano stati inceneriti, recuperai solo qualcosa dal borsone. Comunque salvai la pelle e l’amico a quattro zampe, che non è poco.
Fino a che non si accese il sole dormii un sonno pesante come un coma. Era strano, perché, tranne quando ero molto sbronzo, dormivo sempre con un occhio mezzo aperto.
Alle sei e mezzo del mattino mi svegliai. Chiodo non c’era e andai fuori. La spiaggia, lì vicina, era deserta e il mare aveva un movimento lieve, da sembrare dubbio.
Andai al bar, ma lo trovai chiuso. Rasentai il muro verso il mare. Poi mi fermai in ascolto. Sentivo un suono indecifrabile. Iniziai a girare intorno allo stabile. Prima di voltare l’angolo mi bloccai, cercando di capire quale strumento producesse quella musica. Poteva essere un’arpa, una chitarra, un pianoforte o non so cos’altro.
La melodia alternava dolcezza a momenti di forza, burrasca a bonaccia, con delle punte da uragano e un finale così tranquillo da rendere ogni cosa immobile.
Non avevo mai sentito nulla di simile.
Rimasi dieci minuti in piedi, appoggiato e nascosto dal muro, con Canino silenzioso come non mai. Nell’aria si era formata un’energia indecifrabile, solenne e semplice.
Mentre ascoltavo quella melodia, vidi praterie ondulate mosse da un vento gentile, vette inaccessibili zuppe di neve e ghiaccio, geyser e potenti eruzioni vulcaniche, calma, armonia, lotta e confusione, alternata a serenità e malinconia. Forse davanti agli occhi mi passeggiò la Vita, tradotta in una lingua che non avevo mai considerato: la musica.
Girai l’angolo. Chiodo stava seduto su una sedia e abbracciava una chitarra. Era immobile con gli occhi chiusi e dei fogli sparsi per terra tutt’intorno, a formare un fossato fra lui e il resto del mondo.
Guardai meglio quelle pagine vestite da pentagrammi carichi di pallini neri e segni fatti a mano, sembravano tanti insetti con le zampette che si muovevano sulla carta.
Chiodo aprì gli occhi, mi guardò e non disse nulla. Sistemò una corda della chitarra e riprese a suonare come se non mi avesse visto, come se fossi d’aria, leggendo qualcosa sui fogli sparsi intorno.
Suonò mezz’ora senza fermarsi. Mi sedetti per terra ad ascoltare. Era un mago. Sapeva provocare equilibrio, lacrime, allegria, incertezza, simmetria, tristezza, paura e ordine pizzicando delle corde appiccicate a un utero di legno.
Note come figli, pensai.
Quando finì, sorrise soddisfatto.
«Come fai?» gli domandai.
«Non lo so» rispose «non sono io, è la musica. È nell’aria, io l’ascolto, la trascrivo e la suono… ma io non c’entro. Di mio non ci metto niente. Anzi, me ne sto proprio fuori!»
Si alzò, sistemò lo strumento in una custodia rigida con la delicatezza che si riserva a un neonato, la chiuse e s’incamminò verso il magazzino, con quel corpo alto e smilzo che pareva muoversi senza controllo, disarmonico ma non brutto. I movimenti gli donavano una bellezza scorbutica.
Si bloccò di colpo, appoggiandosi con una spalla alla parete, in maniera strana, come si appoggia una bicicletta al muro, e mi aprì alla sua visione del mondo.
«Sono delle note cadute dall’ultimo rigo, sono disordinate e non si riesce a suonarle, ma sotto c’è un altro pentagramma, e a forza di scendere entreranno a far parte di un’altra melodia, forse più bella. Forse, lì in basso stanno proprio aspettando che quelle note maturino e caschino.»
Feci uno sforzo per interpretare il ragionamento, ma rimase ermetico.
«Le note… che cadono?»
«Quei tre di ieri sera. Stanno precipitando, ma sotto c’è una rete a forma di pentagramma che li ingloberà e li renderà armoniosi, e alla fine risuoneranno con tutto ciò che è musicalmente corretto. La vita li sta accordando!»
«Forse sto rotolando giù anch’io» bisbigliai quasi fra me.
«No, tu vibri in armonia. Fidati, ho orecchio per queste cose» ribatté sventolando i fogli pieni di formiche zampettanti.
Io non vedo gli uomini come note, per me sono foglie di un immenso e magnifico albero. Quelli con cui sto bene, sono più vicini a me perché sono sul mio stesso ramo, indipendentemente dai rapporti di sangue, dai ruoli e dalle apparenze. Li riconosco perché vibra qualcosa dentro, all’altezza del cuore, che crea una risonanza perfetta.
Non ho mai avuto nessun dubbio sul fatto che Chiodo fosse saldamente accomodato vicino a me, sulla stessa fronda, in quell’equilibrio precario che accomuna tutte le foglie all’inizio dell’autunno.
L’acqua fresca della doccia rigenerò il mio corpo e il sapone lavò via uno sporco antico. Con la forbice regolai barba e capelli, poi Chiodo mi diede degli abiti puliti, dicendomi che la padrona era via per altri due giorni e potevo stare lì, ma poi avrei dovuto trovare un altro posto.
«Suono nel locale quattro volte la settimana. Inizio alle dieci e mezzo, questa sera sei mio ospite, vieni e prendi tutto quello che vuoi» mi ordinò prima di uscire nel mezzo di una calda giornata di giugno.
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