La nevicata è spessa come un maglione infeltrito, così densa che a Ronnie sembra cambi direzione: dalla Terra al Cielo. Come quando si fissa a lungo una grande cascata e l’acqua perde la sua caduta naturale e va in senso contrario. Per quanti anni ho avuto la sensazione di percorrere la Vita all’inverso! Dal futuro al passato, dalla morte alla nascita, dall’amore all’odio, dal vedere al guardare e dalla saggezza alla tolleranza dell’incoscienza.
Pianura Padana, 1973
Avevo vent’anni quando mi ritrovai, non so come, su una rampa di decelerazione dell’Autostrada del Sole. Tutti gli autisti che incrociavo suonavano il clacson, come fossero stati colpiti da una crisi isterica collettiva.
Auto in senso inverso in una corsia di decelerazione?
Immettendomi in autostrada, mi accorsi di averla imboccata in senso contrario.
L’adrenalina arrivò veloce come il fulmine, pizzicandomi le mani, facendomi tremare le gambe e cercando di sbalzare il cuore fuori dal petto.
Fermai l’auto di mia cugina Rita sul margine sinistro nella corsia d’emergenza e scesi dall’auto. Com’era potuto succedere? E non mi ero accorto! Anzi, della mezz’ora precedente non ricordavo nulla. Assolutamente niente.
Ebbi la sensazione che qualcosa di brutto stesse per succedermi.
A volte avevo delle assenze. Il mio corpo andava avanti a muoversi automaticamente, come un pupazzo caricato a molla, e quando tornavo in me non ricordavo nulla.
Ogni amnesia disegnava un buchetto nero. Se ripenso a quel periodo, vedo un enorme colapasta.
Con una manovra azzardata girai l’auto. Toccai il guard-rail con il paraurti posteriore. Bestemmiai come solo mio padre sapeva fare. A quel tempo pensavo che una frase esecrabile potesse riparare agli inciampi della vita.
Automatismi di giovane uomo.
Scesi, guardai l’ammaccatura della Fiat 850 beige di Rita, l’unica persona che mi aveva dato un tetto sulla testa e che, in qualche modo, aveva creduto in me. Era l’unica figlia della sorella di mamma ma anagraficamente, avendo diciotto anni più di me, poteva avere un figlio della mia età.
La sera che andai fuori di casa, bussai alla porta di Rita. Non volevo più vivere in un posto dove si pensava che mamma fosse una poco di buono. Piangendo, raccontai a quella figura minuta, che dimostrava più dei suoi quarant’anni scarsi, cosa aveva detto zio Ermete. Lei ascoltò senza dire nulla, più attenta alle mie espressioni che alle parole, poi disse, domani andrò io a parlare con tuo padre e guardiamo cosa si può fare.
Rita viveva in una piccola cascina fuori paese, aveva la licenza media e un approccio pragmatico alla vita. A venticinque anni, prima di riuscire a festeggiare il primo anniversario di matrimonio, perse il marito per il calcio di un cavallo imbizzarrito. Pianse fino a sera, poi caricò la doppietta con i pallettoni, entrò nella stalla e freddò l’animale con un colpo in mezzo agli occhi. Sputò addosso al cavallo agonizzante e disse a Gino, il fattore, di vendere la carne a un macello, ma di tenere coda e criniera.
Da allora più nessuno l’aveva vista piangere. Dirigeva la cascinetta come un kapò, senza un altro uomo a fianco, con la vita ferma a quella mattina, come se aspettasse il marito di ritorno dai campi.
Rita stava dalla mia parte. Ne ebbi la certezza quando mi accompagnò nella stanza da letto. Prima di uscire si fermò sulla soglia e sibilò «sono degli stronzi! Glielo avevamo detto a tua madre di non andare a impelagarsi con quelli. Ma so io quali argomenti capiscono…» lasciò la frase così, in bilico, con una durezza negli occhi che mi fece pensare all’altro pallettone ancora infilato nella canna del fucile da caccia giù in sala sopra al mobile, accanto a una treccia di crine di cavallo.
Fecero un accordo, Rita e mio padre: potevo stare da lei a patto che mi rendessi economicamente indipendente. Mio padre disse che mi aveva già mantenuto a sufficienza, era tempo di piegare la schiena e guadagnarsi il pane quotidiano.
Ero solamente un problema di denaro.
Poi Rita, scrutandomi con i suoi occhietti infossati, chiese che intenzioni avessi riguardo al futuro. Avevo rinviato il militare per la maturità, ma adesso dovevo partire per la naia. Perdere quell’anno di vita non rientrava nei miei progetti.
Mia cugina capì ancor prima che parlassi. «Ti puoi iscrivere all’Università, se vuoi rinviare il militare» disse secca e diretta come una pallina da tennis in un tiro teso. «Che facoltà ti piacerebbe?» domandò, neanche le avessi già risposto di sì.
Non ebbi la possibilità di pensare e nemmeno di rispondere.
«Io mi sobbarco tutte le spese, ma tu mi aiuti con l’azienda e… potresti iscriverti ad agronomia» aggiunse.
Ci aveva pensato lei per me.
E così feci.
Ora, dopo un anno e mezzo avevo dato solo cinque esami, un po’ per la difficoltà a memorizzare che ho sempre avuto e un po’ perché il lavoro in cascina mi prosciugava ore come una sanguisuga.
Sul bordo dell’autostrada, diretto all’Università a Bologna, ebbi un istante di lucidità interpretativa: andavo contromano!
Rischiavo un incidente e di farmi veramente male.
Era ora di prendere in mano la mia vita!
Quel giorno non andai a lezione. E non ci misi mai più piede, all’Università.
Tornai a casa e affrontai subito Rita. Le dissi che volevo prendere una pausa di riflessione dallo studio; ero pronto per il servizio di leva.
«Ok, fa’ come ti pare. Adesso c’è da pulire la stalla e dare il pastone ai maiali» replicò, come se non avesse capito.
Otto mesi dopo partii per il CAR.
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