Il cristallo di neve ondeggia al ritmo di una melodia che pochi sentono. Ronnie lo guarda. Sembra galleggiare nell’aria, pulsa e vibra come il cuore di un mondo, come un… sortilegio.
Un sorriso si apre sul viso dell’uomo, che sente dentro una piacevole sensazione di unità. È la stessa della prima volta che inavvertitamente provocò la Magia.
Natale 1961
Nonna Fina stava male davvero. Me ne resi conto per le vacanze natalizie.
Anche se la mente di un bambino di otto anni non riesce a mettere completamente a fuoco la realtà degli adulti, capii subito che quella figura emaciata nel camerone dell’ospedale, non era più mia nonna. Era smagrita venti chili. Aveva le guance infossate, i pestoni neri sotto gli occhi spenti e il sorriso triste di chi soffre, ma resiste senza lagnarsi.
Con le lacrime agli occhi le chiesi se stesse bene.
«Sì piccolo, sto bene, è solo un momento, passa… passa tutto, vedrai» disse carezzandomi la testa.
Andai a trovarla altre due volte, sempre nello stesso stanzone in compagnia di altri dieci malati che parlavano, tossivano, russavano e mangiucchiavano, fra pillole, punture, flebo, camici bianchi di medici indaffarati, infermieri scortesi e suore efficienti.
In quel caos, la nonna rinsecchiva sempre più. Era una fiammella che stava esaurendo l’ultimo centimetro di cera.
La vita l’aveva consumata.
Ma io non volevo crederci, pensavo fosse una “situazione momentanea”.
Arrivò il 31 dicembre. Alle sei di sera, il buio e il freddo dominavano la campagna e la cascina dove abitavamo. Mio padre cercava di controllare l’inquietudine, camminando attorno al tavolo della cucina e infilando troppi ciocchi di legno nella stufa economica.
Zio Ermete entrò con una folata di vento polare, disse qualcosa sottovoce a mio padre, mi lanciò un’occhiata inclinata e riguadagnò l’uscita.
«Devo andare via un po’, lo zio è venuto a prendermi con la macchina, fra poco arriva Marisa con le bimbe. Tu sei grande. Ti va di stare da solo per un’oretta, vero?» la domanda suonò come un’affermazione.
Non dissi nulla, restai solo, in quella cucina spoglia e disadorna, cercando d’indovinare dove andasse così di fretta. Poi smisi di pensare.
All’improvviso la lampadina si spense e il fosco invase la stanza. Solamente una sottile lama di luce proveniente dalla stufa tagliava a metà il soffitto.
Il buio mi terrorizzava, da sempre.
Pigiai tutti gli interruttori che trovai, ma la luce non arrivò.
Una candela!
Devo trovare la candela. Il pensiero arrivò come scagliato da una balestra luminosa.
Accecato dalla paura, feci cadere delle padelle e un piatto si fracassò sul pavimento, rovesciai la bottiglia dell’olio e del vino, ma infine trovai una bugia, ricoperta di gocce di cera, provenienti da candele scomparse nel fuoco e nella luce di fiamme incuranti.
Accesi il moccolo, mi sedetti per terra e appoggiai il portacandele davanti. Con la schiena appoggiata al muro, roteai lo sguardo nella stanza e mi domandai come poteva una fiammella così piccola squarciare il buio. Anche quello che sentivo dentro di me.
Iniziai a fissare quella fiamma tremolante.
Vidi delle immagini.
Ricordo dei cipressi molto alti che ondeggiavano, mossi da un vento caldo. Sbirciai altre cose che subito dimenticai, ma stavo bene, la paura se n’era andata, bruciata dalla fiamma.
Arrivarono dei pensieri.
Dove se ne va la candela quando brucia? Prima c’è, poi, dopo qualche ora sparisce e resta solo della cera appiccicata ad altre gocce di candele, dissolte prima di lei.
Gocce come lacrime, pensai.
Guardavo la fiamma senza battere le palpebre. La luce della candela divenne più forte, più potente. I pensieri caddero nell’oblio e provai una sensazione nuova e strana, di benessere e pace.
Ero lì seduto e contemporaneamente stavo fuori dal mio corpo di bambino. La cucina s’illuminò di luce propria.
Mia nonna Fina comparve lentamente. Era girata di schiena al lavello, intenta a strofinare qualcosa, con un grembiule nuovo e rosso che non le avevo mai visto. Stava bene, aveva l’aria paffutella di un tempo e mi sorrise, emanando una luminosità intensa. Non disse nulla, ma nella mia testa arrivarono molte sue parole, che andarono via come api man mano che gli anni disegnavano nuovi cerchi sul mio tronco di uomo. Disse molto senza parlare. Non ricordo neppure un rumore. Il silenzio era totale e perfetto. Solo, un intenso profumo di rosa.
Feci quella strana esperienza altre volte, negli anni a venire. Ripensandoci fu una specie d’iniziazione al Mondo Magico, un mondo segreto che si nasconde agli occhi, celato all’interno della tangibilità e ignorato dai più.
Quando ripresi “coscienza”, la lampadina sprigionava faticosamente la sua luce, perché ora tutto era più faticoso e lento. E la pesantezza dominava insieme al caos.
Il silenzio… svanito! Perso nel nulla.
Due vigorose mani mi scuotevano come fossi un capo di biancheria steso al sole. Mio padre mi diede qualche ceffone, più per lo spavento di vedermi stralunato.
Mi destai o forse mi addormentai di nuovo, non so.
Un guazzabuglio di persone e rumori mi stordì.
Che cosa è successo? È andata via la luce! Sta bene? Guarda che casino ha combinato!
Gli zii, Marisa con le bambine, i due vicini di casa e mio padre si zittirono quando raccontai che era venuta nonna. Ci fu sorpresa e incredulità. Mi guardarono con sospetto e nessuno rise delle mie parole.
Erano le otto di sera, zio Ermete, con la sensibilità che lo contraddistingueva, disse che avevo le traveggole e una fantasia macabra: la nonna era morta alle cinque del pomeriggio!
Mi si spensero le parole sulle labbra e per molti anni non raccontai più ciò che mi accadde quella sera.
Al funerale, tre giorni dopo, ebbi la sensazione che nonna Fina non fosse in quella cassa, ma che ci osservasse dall’angolo buio in fondo alla chiesa, dispiaciuta e divertita al tempo stesso. Vivevo il dolore della separazione, ma sapevo che non era morta, era solo sparita agli occhi della gente.
Lei c’era, era viva, solo che non faceva rumore.
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